lunedì 1 marzo 2010

C'era un volta la città dei matti

Lo scorso fine settimana ho guardato dal sito di mamma Rai lo sceneggiato (non mi piace la parola fiction, non la userò mai, e dico ma-i, neanche sotto tortura a meno che non sia preceduta dalla parola pulp) sulla vita di Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro.


A prescindere dal fatto che mi è piaciuto tanto - in sintesi, ho pianto parecchio, e come dice mia mamma, io misuro il gradimento di un film in base alle lacrime che verso - mi ha indotta a varie riflessioni, ma su una in particolare vorrei più avanti soffermarmi.

I pazienti rinchiusi nei manicomi negli anni Sessanta (e stiamo parlando soltanto di 50 anni fa) erano trattati alla stregua di bestie, con i capelli rasati come deportati a mostrare la magrezza dei loro crani, buttati contro un muro per essere lavati con i vestiti addosso, in alcuni casi legati al letto per anni senza avere nemmeno la possibilità di avere le mani slegate per mangiare da soli.
Questa è la situazione in cui si trova a dover operare Basaglia nel 1962 quando arriva a Gorizia per dirigere l'ospedale psichiatrico della città insieme alla moglie e ai suoi collaboratori dell'Università di Padova, con cui cerca di dare luogo alla prima esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati di mente, attuando il modello della comunità terapeutica. Convinto che siano confinate dietro quattro mura le cose che non si vogliono vedere, decide di aprire i cancelli della struttura ed elimina ogni vincolo fisico imposto dal codice medico di quegli anni, le camicie di forza, le terapie - frequenti - a base di violenza ed elettroshock.
E poi - qui è dove volevo arrivare - decide di restituire ai pazienti tutte le cose che avevano con loro quando erano entrati nell'ospedale e che dal quel giorno gli erano state confiscate. C'è una scena nello sceneggiato in cui, per convincere i medici che da anni lavorano nella struttura di Gorizia, reticenti alle sue innovazioni, chiede loro cosa tengono sul comodino. Uno risponde con un elenco elementare 'libri, una radio, foto della moglie, la sveglia' e Basaglia (il molto bravo Fabrizio Gifuni) gli risponde così:
"Bene, c'è tutto: lavoro, amore, passioni. L'identità delle persone fa delle cose semplici.
Noi avremmo bisogno di tanti comodini.
Ricominciamo col restituire ai pazienti gli oggetti e i vestiti che gli erano stati tolti.
Vi sembrerà poco: ma i cambiamenti a volte nascono dalle piccole cose".

Così ogni malato si ritrova a indossare i suoi abiti, a tenere in mano fotografie del fidanzato perduto in guerra, ad avere una vecchia bambola sul letto. E la responsabilità che il possedere qualcosa ci dà, gli fa riscoprire la sua umanità.
Se ci togliessero tutto quello che abbiamo, cosa rimarrebbe di noi?
Le nostre cose, parlano di noi perchè noi le abbiamo scelte. E, come dice il Professor Silente alla fine del secondo Harry Potter, sono le nostre decisioni, non le nostre capacità, a renderci ciò che siamo. I nostri oggetti ci ricordano da dove veniamo, le persone a cui vogliamo bene e quelle che di bene magari non ce ne vogliono più.


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