martedì 30 marzo 2010

farewell

martedì 23 marzo 2010

chetempochefa

Visto che il mio pc è momentaneamente in ferie, in questi giorni sto utilizzando il nuovo arrivato di casa: il piccolo Acer laccato bianco di mia mamma. Una goduria portarselo in giro: pesa poco, ci sta nella borsetta e la batteria dura fino a sei ore. Manco un moroso ti dà tante soddisfazioni (;
Ho da poco sistemato gli ordinari problemi della connessione online e, istallando Google Chrome, ho avuto la possibilità di aggiungere una slidebar di servizi vari ed eventuali che il Signor Google ha da offrire. Servizi assolutamente inutili quali la slideshow continua ed imperterrita di tutte le foto contenute nel pc (già eliminata!) e il servizio meteo aggiornato minuto per minuto impostato su Oslo.
Sono sempre stata convinta che il meteo sia qualcosa a cui credere tanto quanto ai maghi o agli oroscopi d'inizio anno (ma non toccatemi quello di Rob Brezsny su Internazionale http://www.internazionale.it/oroscopo/!), e che le persone che seguono le previsioni meteo altro non siano che dei pigroni che non c'hanno voglia di alzare il culo dalla poltrona per andare alla finestra e controllare di persona che tempo che fa.
Quindi, già mi sono sentita alquanto idiota ad avere impostato quella casellina --al momento piena di nuvolette grigie-- nella parte destra del mio desktop, ma il massimo della scemenza l'ho rasentato quando sotto a suddetta casellina rappresentante Oslo, ho fatto posto per un'altra casellina che mi dice che temperatura c'è a Tokyo.
Tanto per sfamare le curiosità: Tokyo 8° -- Oslo 0°.

sabato 20 marzo 2010

A Venezia, che sogna e si bagna sui suoi canali*

Partendo dal presupposto che io AMO Oslo, non ho comunque dimenticato la mia bella isola appoggiata sul mare, per citare il buon vecchio Guccini. E queste sono le cose che di lei più mi mancano:
  • le polpettine di Renato e i paninetti di Lele annaffiati da un bicchiere di rosso
  • camminare di mattina presto fino ai Giardini della Biennale e godersi il primo venticello della giornata
  • il primo bagno della stagione al Lido, nel grigiore del mare che si perde in un cielo ancora più grigio carico di nuvole
  • fare colazione nel giardino del mio vecchio appartamento con i miei coinquilini e la sera ritrovarsi lì a cena dopo una giornata passata -- a porconare -- al computer
  • il gelato al pistacchio mangiato alle Zattere guardando la Giudecca
  • la vista delle Erberie dalla Corte del Remer
  • le chiacchiere con le amiche al Nono Risorto
  • camminare dopo lezione fino a San Marco, per sedermi in mezzo ai giapponesi che fanno mille fotografie su un ponteggio per l'acqua alta, e fumare una sigaretta guardando San Giorgio
  • la brioche ai semi di papavero di Tonolo e le brioches alla crema chantilly di quella pasticceria vicina a Palazzo Badoer con le proprietarie che mi stanno simpatiche
  • andare a correre la sera d'estate fino alla statua del bambino con la rana a Punta della Dogana
  • la gita annuale alla Biennale solo per vedere il padiglione di Fehn
  • e il bacaro tour che ne consegue.

Per ora, questo.

*da Viaggi e Miraggi, Francesco De Gregori.

martedì 16 marzo 2010

no time no space

Tra 5 giorni i norvegesi partono per Tokyo.
Tra 9 giorni arrivano qui a Oslo la Stefi e il compare.
Tra 2 settimane torno a casa per 6 giorni.
Per poi partire per il Giappone e restarci 9 giorni.

Forse mi schiarirà le idee questo breve periodo di pausa.
O mi farà capire che sarebbe stato meglio darsi una mossa prima (che sarebbe adesso).
Ma ora come ora mi sento allo stesso tempo impaurita e scazzata.
Sento che il tempo è poco, non capisco se ne valga la pena.
Fatto sta che ogni cosa che mi accade qui è filtrata da quello che ho detto e non ho detto e quello che ho fatto e che - soprattutto - non ho fatto.
Ieri ho visto un'intervista a Gabriele Salvatores per l'uscita del suo ultimo film Happy Family, e parlava della felicità e di come l'uomo spesse volte abbia così paura di mettersi in gioco da negarsi la possibilità di essere felice.
Per essere felici, bisogna rischiare.
E rischiare implica responsabilità e possibilità di fallimento.

Keep your feelings in memory

domenica 7 marzo 2010

considero valore

Stamattina mi sono alzata relativamente presto visto che è domenica perchè devo preparare dei plastici per domani e, facendo colazione seduta a gambe incrociate sul letto, ho guardato dal sito di CheTempoCheFa un'intervista a Erri De Luca dell'anno scorso.
E mi è tornata in mente un'altra intervista, che in qual caso gli aveva rivolto Daria Bignardi alle Invasioni Barbariche, al termine della quale aveva recitato una delle sue poesie contenute nel libro Opere sull'acqua e altre poesie, che qui vi lascio per iniziare la giornata.


Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura un pasto, un sorriso involontario,la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggivale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacerein tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,provare gratitudine senza ricordarsi di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nomedel vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri De Luca - 2002

sabato 6 marzo 2010

ho perso le parole

e forse è meglio così.

giovedì 4 marzo 2010

mare, mare

Confessione serale (anche se la definizione più adatta in questo caso è sputtanamento serale).
A me le canzoni di Luca Carboni piacciono un sacco. E a dirla tutta, in certe serate, specialmente quelle contraddistinte da un'arietta leggera sintomo del cambio di stagione, danno parecchio da fare ai miei bulbi oculari.
Stasera sono in vena di piagnistei e lamentazioni.
Stasera è una di quelle sere che torni a casa così stanco da una giornata di lavoro che avresti voglia di fare millecinquecento cose, ma non sai scegliere, in realtà non sai se vuoi guardare un film (e comunque se ne vuoi guardare uno, non sai quale si accordi meglio con il tuo stato), se vuoi leggere un libro, se vuoi buttarti sul letto con le cuffie dell'ipod nelle orecchie, se vuoi mangiare, se vuoi uscire a bere una birretta, and so on.
Non sai, semplicemente.
Quindi procrastini nel mare di mille indecisioni come un novello giovane Werther fino a che non ti metti sotto le coperte a dormire, sentendoti pure inconcludente perchè effettivamente hai buttato via una serata.

...la malinconia ha le onde come il mare...

Quasi quasi adesso inizio Il vecchio e il mare.

martedì 2 marzo 2010

these boots are made for walking

Il mio nervosismo oggi rasenta livelli mai visti (e io, com'è noto ai più, ho una specializzazione in attacchi nervosi) per questi motivi:
  • giovedì iniziano le revisioni pubbliche, Per Olaf non si vede da una settimana e io avrei tanto bisogno di un confronto con un'autorità dell'architettura prima di sputtanarmi di fronte alla classe con le solite pippe astratte sulla natura dello spazio e come l'uomo si relaziona all'architettura in base al suo bagaglio mentale e blablabla
  • ho la vaga - vagherrima - sensazione che i miei dialoghi col nordico siano resi possibili solamente da una discreta dose di alcool in giro nei nostri corpi
  • e, visto che non posso andare a scuola ubriaca, tanto più questa settimana con un progetto da tirare fuori dal cilindro magico delle mie capacità mentali, temo che avremo ben poche possibilità di conoscerci meglio
  • l'inverno sembra non finire mai
  • e se la temperatura non si decide a salire sopra lo zero, la neve che nasconde i marciapiedi non scioglierà tanto facilmente, quindi io sarò costretta a indossare ancora a lungo questi stivali di gomma che non si asciugano mai e che fanno un rumorino antipatico a ogni mio passo.

Verso le sette sono uscita e sono andata al porto a fumare una sigaretta. Tornando a casa (erano quasi le nove), sono passata per la scuola per andare a recuperare del cartone che mi serviva, convinta che in aula non ci fosse più nessuno. E invece, entro in aula e mi becco il nordico seduto alla sua scrivania. Mi ha detto che stava ancora lavorando al suo plastico e mi ha fatto leggere dal suo libro di Libeskind una storia su un doge di Venezia che voleva costruire una torre altissima per sentirsi più vicino al cielo, chiedendomi se l'avevo già letta. Poi abbiamo fatto due parole sul museo ebraico, su Four rooms e un corto di Tarantino. Al che mi ha chiesto se stavo andando a casa e io, scema, ho detto di sì. Lui se n'è rimasto lì e io me ne sono andata. Sono tornata a casa facendo quasi tutta la strada a piedi, cercando ristoro e compagnia nell'aria, nei miei passi veloci sulla neve, nelle sigarette che intanto ho fumato. Quando mi viene voglia di camminare per strade che di solito evito, mentre fumo una sigaretta dietro l'altra e allungo la strada perchè non voglio chiudermi nelle quattro mura di casa e l'unica cosa che voglio sembra essere camminare, beh, vuol dire una cosa sola. E' sintomo di una cosa sola. Cazzo.

lunedì 1 marzo 2010

C'era un volta la città dei matti

Lo scorso fine settimana ho guardato dal sito di mamma Rai lo sceneggiato (non mi piace la parola fiction, non la userò mai, e dico ma-i, neanche sotto tortura a meno che non sia preceduta dalla parola pulp) sulla vita di Franco Basaglia e sua moglie Franca Ongaro.


A prescindere dal fatto che mi è piaciuto tanto - in sintesi, ho pianto parecchio, e come dice mia mamma, io misuro il gradimento di un film in base alle lacrime che verso - mi ha indotta a varie riflessioni, ma su una in particolare vorrei più avanti soffermarmi.

I pazienti rinchiusi nei manicomi negli anni Sessanta (e stiamo parlando soltanto di 50 anni fa) erano trattati alla stregua di bestie, con i capelli rasati come deportati a mostrare la magrezza dei loro crani, buttati contro un muro per essere lavati con i vestiti addosso, in alcuni casi legati al letto per anni senza avere nemmeno la possibilità di avere le mani slegate per mangiare da soli.
Questa è la situazione in cui si trova a dover operare Basaglia nel 1962 quando arriva a Gorizia per dirigere l'ospedale psichiatrico della città insieme alla moglie e ai suoi collaboratori dell'Università di Padova, con cui cerca di dare luogo alla prima esperienza anti-istituzionale nell'ambito della cura dei malati di mente, attuando il modello della comunità terapeutica. Convinto che siano confinate dietro quattro mura le cose che non si vogliono vedere, decide di aprire i cancelli della struttura ed elimina ogni vincolo fisico imposto dal codice medico di quegli anni, le camicie di forza, le terapie - frequenti - a base di violenza ed elettroshock.
E poi - qui è dove volevo arrivare - decide di restituire ai pazienti tutte le cose che avevano con loro quando erano entrati nell'ospedale e che dal quel giorno gli erano state confiscate. C'è una scena nello sceneggiato in cui, per convincere i medici che da anni lavorano nella struttura di Gorizia, reticenti alle sue innovazioni, chiede loro cosa tengono sul comodino. Uno risponde con un elenco elementare 'libri, una radio, foto della moglie, la sveglia' e Basaglia (il molto bravo Fabrizio Gifuni) gli risponde così:
"Bene, c'è tutto: lavoro, amore, passioni. L'identità delle persone fa delle cose semplici.
Noi avremmo bisogno di tanti comodini.
Ricominciamo col restituire ai pazienti gli oggetti e i vestiti che gli erano stati tolti.
Vi sembrerà poco: ma i cambiamenti a volte nascono dalle piccole cose".

Così ogni malato si ritrova a indossare i suoi abiti, a tenere in mano fotografie del fidanzato perduto in guerra, ad avere una vecchia bambola sul letto. E la responsabilità che il possedere qualcosa ci dà, gli fa riscoprire la sua umanità.
Se ci togliessero tutto quello che abbiamo, cosa rimarrebbe di noi?
Le nostre cose, parlano di noi perchè noi le abbiamo scelte. E, come dice il Professor Silente alla fine del secondo Harry Potter, sono le nostre decisioni, non le nostre capacità, a renderci ciò che siamo. I nostri oggetti ci ricordano da dove veniamo, le persone a cui vogliamo bene e quelle che di bene magari non ce ne vogliono più.